Dialogo con Paolo Mezzadri
Tratto da: https://www.ivanpaterlini.it/component/easyblog/dialogo-con-paolo-mezzadri?Itemid=101
Nino scritto ieri…ti amo tutti i secondi ma non saprei come amarti per un minuto
Paolo Mezzadri: Mi sono emozionato molto leggendo il tuo articolo sulla mia opera “Il gioco e il tempo”. Come se avessi il telepass per arrivare all’anima della mia arte; mi ha provocato un senso di benessere: ho capito che non si è mai totalmente soli perché a diverse stratificazioni e consapevolezze, apparteniamo. Per un artista che ha perso la fede da molto tempo, non è poco.
Ivan Paterlini: cosa intendi dire Paolo “ho perso la fede”?
P: Anzitutto è il titolo che vorrei dare ad una mia opera futura che sto immaginando. E’ una questione apparentemente contraddittoria. Ho perso la fede perché sono diventato adulto e questo ha interrotto il mio rapporto con i sogni e la magia per la vita. I sogni sono così delicati che non puoi raccontarli a tutti, poi però c’è la mia opera che è intrisa di sogni e di desideri più o meno consapevoli. Potrei dirti che la mia opera resiste quando dico di aver perso la fede, resiste in me una fede inconscia, penso.
I: Spesso ci sono immagini così indelebili (nel bene e nel male) e formative nelle nostre biografie che non accettano revisioni, resistono e si difendono in entrambi i sensi: mantengono e perdono la fede. Poi penso alla dimensione umana dell’essere che non si può né cedere né scambiare con nulla. Resiste istintivamente.
P: Sì, mi pare azzeccata. Nella via della mai infanzia a Cremona, quotidianamente salutavo le tante persone che sentivo appartenere alla mia vita, mi riconoscevano e io mi sentivo parte di quella via/vita. Dal meccanico, alla Bice, al colorificio, all’edicolante per le figurine e loro si interessavano veramente alla vita di quel bambino che poi è diventato un adolescente, un giovane adulto…ora non c’è più nessuno. Ora è tutto chiuso, o meglio, è tutto uguale.
I: Sembrerebbe esserci una doppia malinconia: del passato e del futuro. P: Forse la malinconia delle piccole cose e degli scarti. La mia opera è fatta anche di scarti e di puntelli. Io penso che la psicoanalisi si caratterizzi principalmente nella valorizzazione degli scarti, scarti preziosi. Sono le opere che amo di più. Ho dedicato buona parte della mia ricerca e dei miei scritti a dimostrare che l’analisi si fonda su un processo dinamico-creativo ed estetico in senso etimologico. Un po’ come i materiali che usi nella costruzione delle tue opere.
P: Si…in “ho perso la fede” vorrei utilizzare il lino. Lino come materiale leggero, come seconda pelle, un viaggio, il profumo delle spezie, consumato, tagliato, ordinato sopra strutture sgraziate in ferro. Lo sto immaginando così: lino come stratificazioni di fragilità. Nelle mie opere la fragilità è immensamente presente. Ma anche dei tavoli di legno lunghissimi e sopra migliaia di barattoli con dentro lettere: una, mille. I nostri pensieri e le nostre narrazioni non scadono mai, devi solo cercare il tuo barattolo, non si deteriora nulla, non so come, ma ci sono. Queste sono le prime idee.
I: Penso alla vulnerabilità e alla fragilità di quel bambino di cui parlavi, sempre aperto al cambiamento e alla vita. Ma anche alla fragilità come una questione ontologia, che appartiene costitutivamente all’umano. La tua opera Radice parla proprio di questo se non sbaglio.
P: Esatto! L’ho presentata in questo modo: ” Immagino tempi dove le fragilità possano diventare virtù e dove le pieghe, le curve e le disagevoli mulattiere dell’anima diventino percorribili racconti e incontri”.
I: La sensazione fisica che si ha a contatto con il tuo materiale, con la tua materia, sembra mettere insieme il vuoto e il pieno, l’ineffabile. Nelle tue opere si sente la presenza fisica e corporea del ferro e della terra.
P: l’opera non parla solo della biografia, parla di tanto altro e gode di ampia autonomia, però in questo caso il ricordo di mio nonno fabbro mi pare troppo evidente e forte. Mio nonno batteva il ferro, faceva il maniscalco e il fabbro. Mi diceva che il ferro non fa rumore se lo batti bene, ascoltandolo non sentivi dissonanze perché lui lo batteva piatto il ferro. Il ritmo che trovava era straordinario. Ho ideato anche un’opera che parla di lui, di noi.
I: Paolo, tu lavori in un posto straordinario, un castello, il castello di Montanaro. Ho l’impressione che tu lo stia difendendo con la tua arte dall’oblio e dall’abbandono.
P: Io vivo in un castello abbandonato del 1070 con ottanta stanze che da 1945 al 1975 fu un educatorio che ospitava bambini, soprattutto orfani che imparavano anche un lavoro. Sento i bambini che corrono e chiedo loro d’essere benevoli con me perché non sono li per saccheggiare, ma per creare. Ho bisogno di vuoti e non di pieni accatastati e solo in quel posto posso trovarli. Questo castello è un bambino che mi aspetta, sempre, per giocare. Per me il gioco è un motore creativo e mi commuove. È tutto così gratuito e autentico.
I: Nelle tue opere, si sente l’urgenza e la necessità di un ritorno a un’etica autentica, che riesca a far coabitare l’uomo col suo limite senza l’anestesia e la narcosi delle cose senza ricordi, del tutto intercambiabile, del troppo pieno bulimico della società contemporanea. Guardo la borsa di lavoro di Paolo, dove conserva bozze, schizzi estemporanei, pensieri che passano. E’ straordinaria: serissima ma nello stesso tempo improbabile, con una maniglia di ferro; gli chiedo se posso provarla. Sento nella mano sensazioni di dolore e di piacere, di leggerezza e pesantezza, di antico/antichissimo e di futuro, sento in un dettaglio la presenza di un artista alla ricerca di un linguaggio condivisibile, soprattutto con i tanti bambini dentro ognuno di noi.